giovedì, settembre 13, 2007

Il problema in Iraq è politico

Dopo l’audizione del generale Petraeus alla Camera e poi al Senato, viene spontanea la domanda: ma che fare ora? Ritirarsi gradualmente, ma ritirarsi, o semplicemente riorganizzare le truppe?

Il generale ha chiarito che da qui a Luglio 2008 ci sarà una riduzione graduale delle truppe di terra di almeno 15000 uomini sul campo.

Indubbio è che l’Iraq presenta comunque una serie di ostacoli che nessuno si aspettava, e che analizzati uno per uno possono far capire come sia comunque difficile la gestione della guerra.

I nodi principali, come da più parti sottolineato, sono essenzialmente la questione curda, il terrorismo di matrice sannita, e la grana sciita con l’Iran in posizione per ora defilata.

L’impostazione della audizioni del generale è stata una serie di dati sull’andamento della guerra. Dati confortanti in certi casi, e disarmanti per quanto riguarda quelli omessi, se consideriamo il tasso di morti civili che tutt’ora resiste dopo quasi 6 anni di guerra.

Mi pare che i fatti per ora più positivi sono il ridimensionamento di Al-Qaeda e le truppe del Madhi, di Al-Asdr, che in questo momento hanno deposto le armi in attesa dei prossimi eventi.

Continua inoltre l’addestramento delle truppe irachene e non a caso gli inglesi a Bassora hanno recentemente dichiarato che è possibile mantenere l’ordine anche senza la presenta occidentale.

A mio parere però il problema più che militare è politico. I dati forniti da Petraeus sono interessanti ma forse terribilmente vuoti se considerata l’assenza di una vera politica a lungo termine che possa mettere d’accordo le varie etnie presenti nel Paese. Il problema è sostanziale.

Dopo quasi 6 anni si sta discutendo ora se inglobare gli ex-baathisti nel Governo. La grazia politica andava fatta anni fa, e invece si è preferito aspettare, umiliando sempre di più i sunniti e aprendoli al fuoco degli sciiti, in preda a una voglia di vendetta che fatica tutt’ora a sopire.

Si doveva evitare evitare che la capitale cadesse praticamente tutta nelle loro mani, e la sola forza militare non è evidentemente bastata a risolvere questo problema.

L’Iraq dimostra sempre di più che “la guerra non può essere il continuo della politica”, ma anzi le due cose devono andare di pari in passo.

Testimonianza di questa perdita di capacità politica è anche il giudizio non proprio lusinghiero dell’amministrazione Bush verso il Governo iracheno, ritenuto incapace di rimettere ordine.

Un arma a disposizione rimane l’economia. I proventi del petrolio andrebbero divisi equamente a costo di scontentare la minoranza curda, perché le responsabilità e le attività di gestione della “cosa pubblica” devono essere per forza essere distribuite fra tutte le componenti del Paese.

L’economia invece è stata accantonata, se non per essere utilizzata dai Paesi interessati, che vedono nell’ex Mesopotamia, una mera fonte di approvvigionamento energetico e nulla di più.

Per concludere quindi, se le notizie dal punto di vista militare sono rassicuranti in molti aspetti, bisognerebbe sapere come si sta delineando a lungo termine la strategia politica del Governo, per indire poi nuove elezioni dove ci sia una distribuzione equa di posti di potere e risorse.

In alternativa l’ipotesi è una: stato federale in senso assoluto e ognuno gestisce come pensa quello che ha.

Soluzione questa forse ancora troppo acerba per una paese che è una via della democrazia e non ancora arrivato

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