giovedì, ottobre 11, 2007

Yunus e la sua Grameen Bank

Stralcio dalla relazione sul microcredito. Favola interessante...


La Grameen bank nasce nel 1976 in Bangladesh per opera di Muhammad Yunus. Letteralmente Grameen vuol dire “banca del villaggio”.

All’inizio degli anni 70 Yunus era un giovane assistente all’università e cominciò a notare che qualcosa non andava. La percentuale di poveri nei villaggi rurali del Bangladesh era molto elevata e la cosa più negativa era che i poveri rimanevano poveri. Le teorie economiche studiate all’università, Keynes, i neoclassici, la moneta, non bastavano a Yunus. Non capiva come mai le banche concedevano moneta solo a quelli che più di altri non ne avevano bisogno. Secondo l’avvenente economista il problema della crescita dei paesi meno sviluppati era questo. La concezione del credito avveniva solo su garanzia reale, e quindi le fasce più povere della società erano svantaggiate non avendo nulla da garantire se non la propria persona.

Dopo la laurea, Yunus scoprì l’America. Il viaggio a Occidente aprì la mente del giovane asiatico. Sviluppo, crescita, benessere erano le basi della società a stelle e strisce. E cosa più insolita era che la gente stava bene per merito proprio. Lo Stato infatti non era né “piccolo padre” come nella Cina di Mao, nè grande fratello come nella realtà sovietica.

Yunus rimase colpito. Proveniva da un paese economicamente arretrato. L’ordine delle cose a cui era abituato non coincideva con una realtà affermata e in espansione come l’impero americano. La società del Bangladesh, come quella di tutti gli altri paesi che si stavano lentamente distaccando dall’India era una realtà che era in mezzo a due assolutismi estremi: il socialismo reale e la religione.

Uno Stato che prendeva tutto e si occupa di ridistribuire in forma eguale a tutti era la prassi a est, e in alternativa la via era quella della teocrazia. In tutti e due i casi gli effetti erano gli stessi.

Assoluta povertà, crescita frenata, e ruolo della donna relegato a oggetto di casa.

La svolta comunque si ebbe nel 1974. Yunus tornò dall’America, e l’esperienza coincise con la grande carestia che attanagliò il Bangladesh. Migliaia di poveri costretti alla miseria e uno stato che non sapeva come fronteggiare il bisogno di tanti.

A quel tempo il Bangladesh godeva come tutti i paesi in via di sviluppo degli aiuti della Banca Mondiale. Aiuti a pioggia che secondo Yunus aiutavano pochi a discapito di molti.

La Banca Mondiale ogni anno emetteva prestiti e aiuti al paese. Il Governo però non poteva ridistribuire in modo uniforme gli aiuti in quanto una spartizione ai cittadini non portava a nessuna crescita vista la grande massa disagiati. Mancando di cultura economica, gli investimenti erano troppo modesti perché visibili. I soldi finivano quindi per rimpinguire le casse delle banche, e delle già potenti caste presenti nel Paese. Uscire da una situazione così complessa appariva difficile, anche perché la situazione internazionale era complessa. In piena guerra fredda paesi come l’India manifestavano la chiara volontà di non allinearsi, in quella sorta di ambiguità che non portò sicuramente benefici di alcun tipo ai vicini della più antica democrazia del mondo.

Yunus non accettò tutto ciò e venne folgorato da un’idea. Perché non aiutare i poveri concedendogli prestiti?

La garanzia sarebbe stata la sua stessa dignità. Il povero garantisce se stesso. Yunus aveva ben chiaro che concedendo piccoli prestiti a molti, si sarebbe far potuto uscire dalla povertà tante persone.

Perché allora non fare la carità o l’elemosina? Secondo Yunus, il concetto di regalo mal si addiceva a una realtà bisognosa di “fare” come quella del Bangladesh. Se tu dai soldi al povero per mangiare, quando ha finito di mangiare avrà ancora bisogno di soldi. Nel lungo periodo il povero capirà che potrà mangiare sempre, senza però creare ricchezza, bensì sfruttando la benevolenza degli altri. Questo non può che portare a una redistribuzione della ricchezza, ma in una logica meramente di “ passa mano”, e non economicamente evoluta. Infatti il passaggio di moneta non ha nessun ritorno in fatto di creazione di ricchezza. Questo non può che essere deleterio per l’economia.

Le banche non erano disposte ad aiutare i poveri in quanto mancava la garanzia che si sarebbe potuto adempiere al prestito. Yunus allora si prese la briga di concedere lui stesso prestiti dando incentivi ai poveri. I prestiti erano solitamente di gruppo. Il gruppo era la garanzia. La garanzia che se anche uno non avesse saldato il debito, tutti gli altri non potevano avere nuovi prestiti.

La somma dei prestiti era poi rilasciata solo per iniziare un’attività. Da un lato stimolava l’offerta di lavoro creando ricchezza, e dall’altro incentivava i poveri a restituire il prestito.

Seppure i prestiti erano piccole somme dotate di interessi abbastanza elevati, il povero sapeva che se voleva mettere su un’attività propria e uscire da una condizione di miseria, doveva per forza adempiere ai propri obblighi costantemente, pena il ritornare alla condizione di povertà antecedente al ricordo al credito.

Yunus era certo che tutti avrebbero operato in questo senso. Contrarie invece le grandi banche del paese che vedevano il povero sempre più povero, identificandolo solo in base a quello che aveva, e non a quello che poteva diventare.

Yunus trovò sempre difficoltà nel rapporto con le banche e in particolare con la Banca Mondiale, criticata spesso dall’economista per l’insensatezza degli aiuti a “pioggia” come già ricordato.

Grande attenzione era al ruolo delle donne. Yunus era credente. Musulmano praticante. Ma si rifiutava di considerare la donna come un’oggetto e rifiutava l’idea che fosse solo il marito a doversi occupare della famiglia.

La donna per Yunus doveva entrare nel circolo vizioso dell’economia e responsabilizzandola anche tramite incentivi al lavoro, poteva fare uscire la sua figura da quella condizione di ghetto che ancora, nel 2007 la attanaglia in tante realtà nei paesi in via di sviluppo.

Ecco perché Grameen ha concesso soprattutto a donne sia la possibilità di lavoro e sia la concessione di prestiti. Il 90 % dei soggetti che hanno ricevuto prestiti sono appunto donne. Donne vogliose di libertà, e donne che hanno capito che la parità sessuale è la prima condizione per una crescita nell’interesse dei cittadini.

Seppur tra mille difficoltà il progetto Grameen, da piccola realtà si è espanso in tutto il paese.

Dopo tanta fatica le è stata concessa lo status di banca. Banca diversa sì. Ma pur sempre banca con tutte le agevolazioni che hanno gli istituti di credito in materia di aiuti e prestiti.

Partendo dal 1974, anno della carestia quindi, il percorso di Yunus e di Grameen attraverso numerose prove.

Nel 1976 il villaggio di Jobra e altri villaggi che circondano l'Università di Chittangong divennero le prime aree in cui era possibile usufruire dei servizi della Grameen Bank. La Banca ottenne un successo immenso e il progetto, con il supporto del Governo, fu esteso nel 1979 al distretto di Tangail (a nord della capitale Dhaka). Il successo della Banca è continuato e si è presto allargato a vari altri distretti del Bangladesh finché nel 1983 il Parlamento l'ha trasformata in una banca indipendente.

L'elevatissmo tasso di restituzione dei prestiti alla Banca rallentò nel 1995 a causa del boicottaggio religioso di carattere fondamentalista attuato da alcuni settori della società contrari all'obiettivo della Banca di migliorare lo status delle donne. Il boicottaggio rientrò presto; purtroppo l'andamento dei rimborsi alla Banca entrò nuovamente in difficoltà nel 1998 a causa dell'inondazione del Bangladesh ed ha ripreso il suo ritmo solo di recente.

La Banca oggi continua ad espandere la propria attività in tutto lo Stato e tuttora fornisce piccoli prestiti ai poveri delle campagne. A metà del 2006 le filiali della Grameen Bank ammontavano a più di 2.100.

Alcuni dati aggiornati al 2006 ci mostrano come Grameen sia una realtà ora affermata in tutto il mondo, sia in paesi sviluppati che non.

Un'insolita caratteristica della the Grameen Bank consiste nel fatto che essa è di proprietà dei clienti indigenti finanziati dalla banca stessa, la maggior parte dei quali sono donne. I clienti finanziati sono titolari del 94% del capitale della banca e il restante 6% è di proprietà del Governo del Bangladesh.

Altri fatti relativi alla Banca, aggiornati a maggio 2006 sono i seguenti: L'ammontare totale dei clienti finanziati è di 6.39 milioni, il 96% dei quali sono donne.

La Banca ha 2185 filiali in 69.140 villaggi con un totale di 17.336 dipendenti e il tasso di rimborso dei prestiti è del 98,45%.

Il totale dei prestiti concessi dall'avvio dell'attività bancaria ammonta a 263.840.000.000 di Taka (5.340.000.000 di dollari USA). Di essi sono stati restituiti 234.750.000.000 di Tk (4.730.000.000 di dollari USA).

La banca inoltre fonda il meccanismo su sedici principi riassunti nello statuto della banca:

1.Vogliamo seguire ed affermare i quattro principi della Banca Grameen (Disciplina, Unità, Coraggio e Duro Lavoro) in ogni momento della nostra vita;

2.Vogliamo portare il benessere nelle nostre famiglie;

3.Non vogliamo abitare in case in rovina; vogliamo riparare le nostre case e vogliamo lavorare per costruircene di nuove nel più breve tempo possibile;

4.Vogliamo coltivare i nostri orti tutto l'anno; vogliamo mangiare ortaggi in abbondanza e vogliamo venderne il sovrappiù;

5.Nel periodo della semina vogliamo piantare la maggior quantità possibile di germogli;

6.Vogliamo pianificare le nascite affinché le nostre famiglie siano piccole; vogliamo contenere le nostre spese e vogliamo curare la nostra salute;

7.Vogliamo educare i nostri figli ed essere certi che essi possano guadagnare per pagare la loro istruzione;

8.Vogliamo mantenere puliti i nostri figli e l'ambiente;

9.Vogliamo costruire ed utilizzare latrine con la fossa biologica;

10. Vogliamo bere l'acqua da pozzi scavati fino alle falde; qualora non fosse disponibile, bolliremo l'acqua o useremo l'allume;

11. Non vogliamo accettare nessuna dote ai matrimoni dei nostri figli maschi né vogliamo darne per i matrimoni delle nostre figlie: manterremo i nostri villaggi liberi dalla maledizione della dote; e non celebreremo nessun matrimonio tra bambini;

12. Non vogliamo infliggere alcuna ingiustizia a nessuno né consentiremo a chicchessia di farlo;

13. Vogliamo fare insieme investimenti comuni sempre più cospicui dai quali ottenere redditi sempre più alti;

14. Saremo sempre pronti ad aiutarci reciprocamente; se qualcuno/a si trova in difficoltà lo/la aiuteremo;

15. Se verremo a sapere di infrazioni alla disciplina in qualche villaggio, ci recheremo a dare una mano a ripristinarla;

16. Parteciperemo tutti insieme alle attività comuni.

Le nuove frontiere di Grameen sono aperte. Per stare al passo con i tempi sono state proposte numerose modifiche al sistema originale della banca. Le principali innovazioni riguardano la gamma dei prodotti finanziari. Le novità sono racchiuse nel documento programmatico di Yunus del 2002 di nome “ Grameen Bank 2”. Il nome del progetto, Grameen Generalised System è scaturito dall’esigenza di rendere l’intero sistema meno rigido e standardizzato, maggiormente elastico tale da poter essere ancor più vicino alle esigenze delle persone, cercandone di tutelare e valorizzare la specifica personalità ed identità.

Effettuando una prima analisi in parallelo fra modello tradizionale e modello generale di sistema possiamo immediatamente scorgere la coerenza di fondo del nuovo progetto rispetto al sistema originario.

Il concetto di solvibilità del povero resta un punto focale ed immutato, confortato da nuovi dati empirici, i quali evidenziano un’altissima solvibilità (98%) di tutti quegli individui che avendo sforato la data di scadenza del prestito si impegnano ad un totale rimborso, maggiorato degli adeguati interessi, in un tempo futuro. La valorizzazione delle attività comunitarie inerenti il lavoro, e la modalità di concessione ed erogazione del credito a piccoli gruppi di persone, rimangono concetti estremamente saldi.

La centralità della categoria femminile, come agente privilegiato atto all’accesso al credito, è ampiamente confermata.

Il nuovo sistema propone alcuni escamotage e nuovi concetti/prodotti, che apparentemente si discostano dal canone classico, tuttavia come vedremo, non si pongono assolutamente in contraddizione, bensì sono in funzione di esso.Tra le principali peculiarità di questo nuovo assetto della Grameen Bank ci sono:

- Flessibilità dei prestiti in termini di importi, clausole e scadenze.

- Personalizzazione ad hoc dei programmi di microcredito.

- Accesso al credito consentito anche a singoli privati.

- Nuove linee previdenziali ed assicurative.

- Esternalizzazione delle utilità ed internalizzazione delle disutilità, che il singolo può apportare in relazione al gruppo di lavoro (abolizione del fondo mutualistico comune del gruppo).

- Sistema di propositiva meritocrazia non tesa ad esiti sperequativi.

- Eliminazione di pratiche che inducevano il povero a stati di stress e tensione nervosa.

Come appare dai microconcetti sopra citati, pur avendo dato al sistema del microcredito un’impronta lievemente individualistica, il nuovo assetto non ha sminuito in alcun modo l’originale orientamento teso alla socialità e alla relazionalità all’interno dei rapporti orizzontali fra i membri dei gruppi di lavoro; anzi lo ha notevolmente incrementato se consideriamo i rapporti “verticali” che intercorrono fra Grameen Bank e singolo utente, ovvero la persona nelle sua interezza e poliedricità.

La soluzione tesa all’accoglienza e valorizzazione di ogni singola persona, che operativamente si

traduce in termini di flessibilità ed individualizzazione di alcuni aspetti del programma di

microcredito è stata una scelta sicuramente opportuna ed efficace, soprattutto ora che la

struttura organizzativa della Grameen Bank è in grado di poterla sostenere ed effettuare in modo adeguato e rigoroso.

Il progetto Grameen va avanti quindi. I concetti di fondo rimangono anche se la sfida è ancora aperta soprattutto rispetto a una globalizzazione che continua dimenticando indietro fasce sempre più grandi di popolazioni, che ancor prima dei mezzi, non hanno gli strumenti per stare al passo con i tempi.

Grameen serve a questo: dotare i poveri di strumenti.

giovedì, ottobre 04, 2007

Ma in Russia c'è democrazia?


Dal 2000, anno dell’avvento dell’ex ufficiale del Kgb, tutti si chiedono se in Russia sia ancora possibile parlare di democrazia. Le sortite di Putin ogni anno si fanno sempre più preoccupanti.

Non c’è conflitto diplomatico planetario dove la Russia in qualche modo non sia presente.

L’Onu è bloccato per i continui veti dell’ex Urss e della Cina comunista.

I misteri degli ultimi omicidi politici si infittiscono e appare sempre più coinvolto l’apparato statale russo,anche se in via squisitamente indiretta come è nella nuova tattica di Putin.

Il surriscaldamento globale sembra averci portato almeno un vantaggio: l’inverno non è così freddo come è sempre stato, e Gazprom non ha la capacità di farci tremare i denti per quattro mesi all’anno.

La Russia quindi è nelle nostre teste ed è presente ogni giorno nell’attualità internazionale.

Le elezioni presidenziali tenutesi nel 2000 e nel 2004 sono state vinte da Putin a maggioranze bulgare per la mancanza di una vera e propria opposizione.

Repressioni per manifestazioni di piazza e vincoli burocratici sono state attuate sistematicamente dall’apparato di sicurezza interno della Federazione Russa.

Il 4 Dicembre 2007 si terranno invece le elezioni parlamentari dove il partito del presidente, Russia Unita, sembra non avere rivali. L’ex campione di scacchi Kasparov sta facendo il possibile per portare migliaia di persone in piazza. Ma la gente ha paura. Ha paura come l’aveva quando in piazza c’erano le adunate militari volute da Breznev e Khruščёv negli anni del terrore. Sarà difficile quindi per liberali, comunisti e riformisti ottenere un risultato migliore di quello del 2003 dove con il 40 % Russia Unita ottenne più della maggioranza dei seggi della Duma. Per Dicembre si teme addirittura un risultato ancora più estremo con il partito dell’orso in grado di raggiungere il 50 % dei consensi.

Apparentemente non ci sarebbe nulla di male nei numeri. Nulla di male se uno non sapesse cosa sta accadendo in Russia e come si sta evolvendo il sistema politico interno.

L’altro ieri il presidente russo ha dichiarato che l’addio al potere è rimandato. Al massimo sarà un arrivederci. La Nuova Costituzione vieta che ci si possa ripresentare tre volte di seguito alle presidenziali. Ciò non toglie che Putin possa presentarsi come primo ministro per un mandato per poi tornare il sella nel 2012 per la prossima legislatura. A questo punto tutto si gioca intorno alla nomina che farà il principale partito alla guida del Paese. Russia Unita appunto.

Nel discorso dell’altro ieri Putin ha indicato che il suo successore dovrà essere «una persona perbene, capace e moderna disposta a lavorare in squadra con lui». Insomma, un presidente fantoccio, che, salvo colpi di scena, risponderà al nome dell’attuale premier, il fedelissimo e sconosciuto Viktor Zubkov.

Medvedev, l’altro possibile candidato, figlio del potere energetico e industriale, sembra troppo giovane per prendere il timone della Madre Patria Russia. Si dice anche che sia in atto un tentativo di frenarlo per le sue ambizioni di potere, ritenute troppo esplicite da parte dell’entourage del presidente. Non rimane che Zubkov quindi, uomo di fiducia e sconosciuto. Per questo appunto innocuo. All’inizio del prossimo anno i due si scambieranno le funzioni almeno dal punto di vista formale, ma l’unico vero boss rimarrà Putin.

La stampa russa sostiene che la Russia sta prendendo la forma di una repubblica parlamentare abbandonando il modello presidenziale. Pare però un pretesto, perché la realtà è che nelle prossime legislature il potere sia sempre più stabilmente in mano a Vladimir.

Il regime oligarchico è già tramontato da un pezzo. La “casta” industriale che sosteneva Boris Eltsin ha fatto strada al monopolista Gazprom che ha mangiato via via tutti gli altri protagonisti nello sfruttamento delle risorse energetiche. Lo Stato tramite Gazprom ha epurato e smantellato gli ultimi rimasugli di quella che fu la contro-rivoluzione per la democrazia.

L’ex patron della Yukos Mikhial Khodorkovsky, prima di essere arrestato e spedito in galera in Siberia ha rischiato la vita per essersi messo contro Putin.

E poi lui, l’arcinemico, l’oligarca degli oligarchi, quel Boris Berezovski che ha giurato guerra a Putin, e quindi a tutta la Russia. Il magnate dell’aria e del petrolio era il più coccolato al Cremlino quando c’era Eltsin.

Quando nel ‘99 fu chiaro che Eltsin aveva scelto Putin come successore, per Berezovzki le cose cominciarono a cambiare. Da gestore del potere cominciò a diventare diffidente del potere. Quello era un periodo difficile. La Russia colpì crudelmente la Cecenia e Berezovski sentì che era giunto il momento di cambiare aria.
Anche perché i giudici, senza più Eltsin a proteggere gli oligarchi, tornavano a farsi domande sul suo pacchetto azionario nella compagnia di Stato Aeroflot e sulla legittimità della sua proprietà della Logovaz, l’azienda di Stato sovietica che faceva automobili, privatizzata.
Durante una delle sue frequenti visite a Londra, scelse di restarvi.

Aveva venduto nel frattempo i suoi interessi nei media, fra cui il controllo del giornale economico «Kommersant».
Lasciò così a metà il suo ultimo progetto politico: nel 2000 aveva creato dal nulla uno spontaneo partito politico, «Russia Liberale», che secondo le sue intenzioni doveva unire in un blocco tutti gli uomini d’affari (del suo stampo) «sostenitori del libero mercato».
Partito finito nel nulla da quando manca di spontanei finanziamenti e da quanto i comunisti sembrano l’unico tentativo di andare contro il sistema attuale.

Con Berezovski si è chiusa definitivamente l’era degli oligarchi. Quelli che rimangono rispondono direttamente a Putin. Le libertà economiche in Russia sono arrivate prima di quelle politiche.

Ma tali libertà sono state le prime anche a diventare sempre meno “libere” e sempre più governate dall’alto.

In fondo da prima del ’89 non è cambiato molto. Cosa cambia da uno Stato che domina l’economia a uno Stato che domina un soggetto che domina l’economia ? Niente. Solo il potere passa da diretto a indiretto.

Questa sembra essere la nuova strada per la Nuova Russia, tanto nuova quanto vecchia nei meccanismi e nelle logiche di spartizione del potere.

L’idea balenata al Cremlino di dare a Putin il Governo, in attesa di tornare al posto che più gli compete, non va nella direzione che auspica la Comunità internazionale.

Le recente prove di forza sul sistema missilistico e il riarmo strategico deciso da Putin va di pari in passo con la scalata economica.

Nella basi sul Volga e a Polyarny giacciono ancora i sottomarino classe Kilo, Minsk e Kiev, che tanto facevano paura a Kennedy durante la guerra fredda. Ecco perché ogni tentativo di scuotere l’orgoglio militare russo da parte di Putin, non può non far pensare a ricordi inquietanti e storie che avremmo voluto dimenticare.

Gli Stati Uniti, per bocca della Rice, bocciano senza appello l’idea di gestione del potere indiretto da parte di Putin. Ma stanno in attesa degli eventi, anche perché aprire un altro fronte dopo quello del terrorismo e dell’asse del Male, appare eccessivo anche per un impero globale come quello a stelle e strisce.

Negli ultimi giorni due eventi hanno scosso però profondamente le ambizioni di potere russe.

La Birmania e l’Ucraina.

I monaci buddisti hanno dato fastidio. Il regime birmano non è così brutale come ora i mezzi stampa lo dipingono. Non a caso la protesta è nata su un imprevisto aumento della benzina. Un fatto economico appunto. Non certo per i diritti civili, calpestati si come in ogni altro regime, ma con una brutalità nemmeno paragonabile a quella nord coreana o quella cinese. Chissà se Putin non ha pensato che scene come quelle di Rangoon possano accadere anche a Mosca?

In fondo la situazione, non è poi così diversa. Fa forse solo impressione che il governo russo sia in giacca e cravatta, e invece in Birmania ci sia una giunta militare che governa. Per il resto le analogie sono evidenti.

In Ucraina, timone dell’ex Unione Sovietica, la situazione è complessa e sembra proprio che da qui si possa profilare un intoppo nelle strategie di Mosca.

Dopo che l’asse della rivoluzione arancione della bionda Timoshenko e di Yushenko ha vinto le elezioni il filorusso Yanukovich non potrà reclamare potere. L’uomo fidato di Mosca a Kiev è stato sostenuto con tutti i mezzi da Putin, ma ciò non è servito per tappare la voglia di nuovo della maggioranza del popolo ucraino.

Moti, quelli ucraini, che, tradizionalmente anticipano le sorti del fratello maggiore russo.

Putin lo sa. Per questo Gazprom ha già messo all’erta che se l’Ucraina non rispetterà i suoi impegni di debito nei confronti del gigante energetico, i rubinetti saranno chiusi ancora una volta, come due inverni fa.

Ma Putin sa anche che la Georgia è in attesa degli eventi, e la Nato è un fantasma che si aggira sempre di più nelle stanze di Tbilisi. Se l’ambiguità rimane sul fronte della lotta al terrorismo, con la solita violenza verbale nei confronti dei ribelli ceceni, e i soliti mugugni verso il nucleare iraniano, decisive a questo punto saranno anche le presidenziali americane.

Se l’amicizia con Bush è ben salda e ha garantito un relativo tempo di “pace forzata”, non sappiamo come si svilupperanno gli eventi in caso di vittoria di un’esponente democratico. Calcare la mano potrebbe far impuntare sempre di più Mosca verso l’irrigidimento dei rapporti verso gli U.S.A, cosa non del tutto auspicata da Washington per i motivi elencati sopra.

La democrazia comunque in Russia sembra ancora lontana. Le nubi sul cielo di Mosca non presumono nulla di buono.

Troppo spesso si riconosco a Putin i meriti di essere una grande potenza, lasciando correre omicidi mirati, strategie politiche ed economiche, che non sarebbero tollerati se commesse da altri Stati.

Di frequente si fa finta di non vedere che in un sistema come quello russo non esistono bilanciamenti al potere esecutivo. La magistratura, e il parlamento, per quello che vale ora, sono del tutto asserviti al Cremlino, in stile molto simile a quello sovietico.

Real politik quindi o semplice working progress in attesa degli eventi?

Una cosa è certa.

La Russia lentamente si sta evolvendo. Ma sempre di più sta tornando a quello che era, e a quello che pensavamo fosse morto e sepolto. Chissà quando ci si accorgerà veramente di tutto questo.

martedì, ottobre 02, 2007

Israele agisce unilateralmente?

Dolente o nolente Israele la sua parte la fa.

La palla come al solito passa alla ANP e ad Abu Mazen. Le critiche che vengono spesso dall’opinione pubblica è che Gerusalemme spesso agisca unilateralmente. E’ accaduto tante volte e non ultimo, il ritiro dalla striscia di Gaza da parte di Ariel Sharon.

Ma da quando in qua i gesti distensivi sono nelle relazioni internazionali, concordati?

Magari un gesto distensivo tira l’altro ci può essere un negoziato. Non ricordo atti di particolare importanza compiuti ne da Abu Mazen ne da Arafat ( a parte rinunciare al 98% delle promesse da lui chieste a Camp David).

Non ricordo gesti distensivi nemmeno da parte di Hamas, ma evidentemente a Gaza la parola “moderazione” non sanno che vuol dire.

Attendiamo gli eventi quindi.

Purtroppo gli ami lanciati sono tanti. Il pesce fiuta e prende un’altra strada però.

domenica, settembre 30, 2007

Hamas Vs Fatah

(ANSA) - GAZA, 29 SET - Nove feriti di cui 2 gravi in una rissa esplosa fra sostenitori di Hamas e Fatah in una moschea a Khan Yunis a sud della striscia di Gaza. Lo scontro, avvenuto durante la preghiera della sera, sarebbe esploso dopo che un imam vicino ad Hamas avrebbe iniziato a tenere il suo sermone prendendo il posto del predicatore di Fatah. Nella rissa sono stati usati bastoni, sedie e coltelli ed anche armi da fuoco. Sono in corso indagini per l'identificazione dei responsabili dei ferimenti.

(fonte ansa)


Due popoli, 3 stati. Questa sembra la dura realtà......

Taliban al potere?

Karzai apre ai taliban. La notizia per la verità non è nuova. Già da un anno sono frequenti i contatti tra Kabul e le provincie più a sud del Paese, dove sono presenti gli avamposti dei “ribelli” afghani.

La mossa è importante perché mai l’amministrazione afgana è stata così diretta nel chiedere ai Taliban di rientrare sulla scena politica.

Tra l’altro la dichiarazione è avvenuta dopo la visita di Karzai negli U.S.A. Si suppone quindi che ogni decisione sia stata concordata preventivamente con Bush e con gli Europei.

Far apparire civili persone incivili potrebbe essere importante per una sorta di riappacificazione nazionale.

Meno di un anno fa la nostra classe politica polemizzava sulle parole di Fassino che invitava anche i taliban alla conferenza per l’Afghanistan. Karzai sta quindi seguendo l’idea del segretario dei DS? Piuttosto ancora una volta è la nostra classe politica che dibatte di nulla, dimenticando il corso degli eventi.

Il punto è però un altro. Ammesso e non concesso che i taliban appoggino ancora in modo esplicito Al-Qaeda, l’assunto fondamentale della guerra è stato che dottrina Bush permettendo, “ chi aiuta i nemici degli U.S.A, deve essere colpito preventivamente”.

Allora, mi chiedo. La decisione di tendere una mano all’aiuto del nemico da parte di Karzai ( e quindi si pensa anche degli U.S.A) è stata presa per quale motivo?

Da un punto di vista militare potrebbe trattarsi dell’impossibilità tecnica di una completa incursione per rompere del tutto le ultime sacche di resistenza. A quel punto però sarebbe un’ammissione di sconfitta davanti a un paese che ha già portato male all’orso russo.

A livello politico invece la situazione sarebbe quindi più grave di quello che si pensa. Il consenso taliban sarebbe quindi in crescita. L’indifferenza pashtun davanti ai taliban non aiuterebbe.

In questo caso in tentativo di inglobare sulla scena i taliban potrebbe portare a un ridimensionamento della proposte già avanzate a Karzai.

Il pericolo è però che il sogno di riconciliazione svanisca come sta svanendo in Palestina.

Portare Hamas al potere non ha eliminato la vocazione ideologica militare

venerdì, settembre 28, 2007

USa e UE uniti contro la Birmania

L’aumento della benzina fa brutti scherzi in un Paese che da 40 anni è sotto un regime di stampo militar-socialista.

L’ONU come al solito è bloccato per i veti incrociati di Russia e Cina.

Oggettivista lo spiega molto bene qui. Jim Momo sottolinea come anche l’India, la più antica democrazia del mondo, non si faccia scrupoli nel tutelare la giunta birmana ( qui). La cronaca degli eventi è crudele. RDM20 la spiega qui ed Enzo Reale qui.

Un aiuto a come stanno veramente le cose i blog in questo caso lo stanno dando.

Giornalisti free-lance che rischiano la vita per informare su uno dei più sanguinari regimi ancora esistenti sulla faccia della Terra.

Regime che ha portato per una volta alla stessa identità di vedute dei due attori più importanti sulla scena internazionale: Usa e Ue.

Dopo i malumori afghani e la rottura irachena, finalmente il vecchio continente viaggia unito all’Amministrazione Bush almeno nelle intenzioni. Le sanzioni per ora appaiono come minimo denominatore comune che potrebbe sbloccare i veti che vengono da est.

Un passo avanti dunque, dopo il problema Iran, verso la strada della riconciliazione globale tra Marte e Venere ( Kagan).

Temi come il riscaldamento globale, il terrorismo, e resistenti regimi sanguinari come la Birmania, non possono venire affrontati da punti di vista differenti.

Strutture orizzontali come Al-Qaeda, di per sé difficili da identificare, devono almeno sapere che la Comunità internazionale nella sua maggioranza è schierata su una determinata posizione.

Apparentemente le sanzioni sembrano poca cosa verso un regime che è abituato all’isolamento economico e politico. In Corea del Nord la situazione è forse più facile perché Kim e il regime hanno politicamente commesso un errore che si sta rivelando grava: il nucleare come deterrente.

Mossa che ha allarmato la comunità internazionale e messo in difficoltà anche la Cina e la Russia.

In Birmania, gli interessi economici praticamente sono inesistenti, e per la Cina in primo luogo, cedere alle pressioni internazionali sarebbe in questo caso più complicato.

Intanto il regime va avanti. Parla anche di risposta “moderata”. Probabilmente perché negli ultimi anni, sa di avere agito in modo molto più brutale.

Pare comunque che le proteste da più parti del mondo ci siano. Il consenso dunque è unanime nel condannare quanto sta accadendo. Le manifestazioni di piazza sono più lente da organizzare non essendoci chiaramente una democrazia contro cui manifestare ( Usa, Israele, Francia ecc.).

Per una certa sinistra manifestare contro un regime sembra strano. Ma col tempo ci arriveranno forse anche loro.

giovedì, settembre 27, 2007

Maggioranza in crisi

Alla Camera incidenti parlamentari per la maggioranza…

Il liberalismo può essere " compassionevole"?

Giavazzi ci ricorda sempre come il liberismo possa essere un valido strumento per le politiche economiche del centro-sinistra.

Da più parti si eleva il concetto di “liberismo compassionevole”.

In questo modo si cerca di dare un’etichetta sociale a un concetto di mondo e di persona che sociale non è. Il mercato è un gioco tra attori che concorrono per un obbiettivo. La competizione è la base del funzionamento della domanda e dell’offerta sia se parliamo di mercato elettrico, del lavoro, o finanziario. Se accetti di competere ci sarà sempre qualcuno che se ne avvantaggia e qualcuno che perde. Quindi ci sarà chi sta meglio e chi sta peggio. L’incentivo all’individuo dovrebbe essere quello di migliorarsi sempre. Con questa logica si basano le economie più sviluppate.

Giavazzi ci ricorda sempre come aiutare i deboli sia non tanto aiutare i pensionati, ma aiutare i giovani. Anche io penso sia vero. Il problema della sinistra, che Giavazzi non sottolinea, è che la sua classe dirigente non riesce a concepire l’aiuto, se non tramite “togli a uno per dare a un altro”.

Questo non è altro che un concetto di classe, che non può che portare all’egualitarismo, nemico appunto di chi si professa liberale liberista.

Essere “compassionevole” non credo sia accettare la flessibilità o le regole.

In un sistema che si sta evolvendo la flessibilità e la mobilità sono fisiologici nel mercato del lavoro. La differenza la fa chi l’accetta prima e chi dopo. Ma prima o poi tutti ci arriveranno.

Stessa cosa per le regole. Nei mercati come quelli attuali, incerti, instabili e costantemente a rischio bolla,pensare a mercati liberi e lasciati alla “mano invisibile” smithiana fa sorridere.

Da un mercato libero a un mercato delle regole il passo è stato breve. Il punto non è che chi accetta le regole è meno liberista di chi le regole non le concepisce nel mercato. Il punto è che spesso senza regole sparisce il mercato stesso.

Da liberale invece si dovrebbe sottolineare come gli eventi e la società dovrebbero plasmare la classe politica e le sue idee. Se il mondo si evolve, la politica dovrebbe recepire ed adeguarsi, senza usare come una clava principi ed etichette in nome della stessa competizione politica.

Clinton e Blair non erano liberalisti convinti. Hanno solo capito che le rivoluzioni fiscali ed economiche degli anni prima andavano mantenute in quanto “giuste”, non in quando politicamente accettabili.

I principi rimangono, è la politica che si evolve. Etichettare come “compassionevole” chi è liberista però “non del tutto”, fa parte della demagogia politica e di quel deformismo intellettuale tipico di chi predica bene e in molti casi non razzola proprio.

Giavazzi e Alesina patteggiano per una parte. E’ fisiologico in un mondo che si schiera costantemente. Cercano di portare il loro contributo riformista a una causa che nasce e che sperano non prenda derive conservatrici. Fanno un lavoro sporco però.

Il liberalismo è un’arma preziosa ma che va usata in una certa maniera. Il problema però è a chi servono le riforme.

Non si tratta di capire se Adam Smith, Mill, o Ricardo erano di destra o di sinistra. Le riforme vanno fatte nell’interesse della gente, non della classe dirigente.

Il liberalismo non può essere etichettato di destra o sinistra per il semplice fatto che è scomodo quanto di qua e quanto di là, proprio in quanto libero.

L’idea stessa di politica non è del tutto conforme alla libertà. I politici e gli economisti farebbero bene a pensare a dare meno etichette e fare più riforme. Solo quelle ci diranno chi è liberale o no, indipendentemente dal colore politico.

Grillo poco violento per il "Manifesto"

Dal manifesto reclamano più violenza. Secondo il giornale fondato dalla Rossanda e Parlato, Grillo sta diventando lo specchio dell’antipolitica e l’unico che se ne avvantaggia è l’antipolitico per eccellenza: Il Cav.

Il “Manifesto” quindi non si smentisce mai. Non basta avere nella propria area un Farina che condannato per lancio di bombe e lotta armata, si proclama condannato, ma in nome delle lotte sociali ( tirare bombe fa bene al sociale? ). Ora assistiamo anche a consigli di forzare la mano.

Mettere ancora più demagogia e violenza verbale sembra la carta giusta per inglobare il “giullare” nell’alveo della sinistra. Loro dicono che in realtà mettere più violenza significa semplicemente fare satira.

A me pare invece che alzare i toni personali verso i singoli politici non possa che portare la gente all’odio verso una politica che va corretta, non sfasciata.

mercoledì, settembre 26, 2007

Ma la società non è meglio della "casta"

Il Corriere come al solito da spazio ai vari delusi del centro-sinistra.

Nicola Rossi ci spiega come il problema della maggioranza sia di carattere culturale e non politico. E’ per questo che il popolo protesta, ed è stufo di una politica che sembra essere sempre più lontana dalla gente. Attendiamo solo il rifugio sull’Aventino ormai.

Ma la politica, pur nelle sue pecche e nella sua malattia, nel concetto stesso della parola politica, non è meglio della società.

La classe dirigente è lo specchio della società.

In un paese dove il 30 % del Pil è evasione non si può pensare che i politici si facciano scrupoli ad acquistare palazzi interi a Roma a prezzi stracciati. E’ tipico della nostra società pensare solo al proprio orticello. Si è sempre distinto non il più bravo, ma il più furbo.

Una società che vive di rendita e si scopre parassita di se stessa ha 30 parlamentari condannati in via definitiva. In altri Stati non sarebbe tollerato, ma non sarebbe tollerato neanche che il tempo medio per trovare lavoro in Italia per un neo-laureato è di 100 giorni.

La casta è li. Tira a campare. In mezzo alla casta ci sono persone oneste e altre meno oneste. Ma anche i giornali che leggiamo rappresentano una casta. Anche quando andiamo dal commercialista per la dichiarazione dei redditi o dal notaio per una carta, siamo in presenza di “caste”. Così come quando apriamo un conto corrente.

Il problema è che l’Italia da sempre vive di “caste”.

I costi della politica c’erano anche vent’anni fa. Alla gente andava bene. Perché lascia fare. Fin quando la gente non è pressata dalla politica e dal progresso lascia fare. Ha lasciato fare per cinquant’anni. Ora si ribella.

Un altro difetto dell’italiano medio è quello di farsi influenzare da tribuni popolari, raccogliere lo scettro della protesta, manifestare, urlare, e poi chi si è visto si è visto. “ Can che abbaia non dorme”. Altro tratteggio tipico di una società che protesta contro se stessa.

Grillo, costituzionalista di indubbia fama, ci dice che per colpa di questa legge elettorale, le nomine sono decise dall’alto. E’ per questo che i condannati siedono in Parlamento.

I condannati sedevano anche prima del 2001 però, e quei condannati sono stati condannati per atti commessi anche prime del 93, mentre sedevano ( già?!! ) in parlamento.

La legge elettorale è importante ma non credo sia la cura per risolvere i problemi del Paese.

Una società corporativa, chiusa, eguale si merita la classe politica che abbiamo.

Una classe politica che non rispetta le promesse fatte è la stessa dirigenza eletta da cittadini che progettano l’inverosimile e realizzano poco o niente, con il risultato che i peggiori stanno qua e i migliori vanno all’estero perché li progettano, hanno idee, e le mettono in pratica queste idee.

Il popolo vuole farsi sentire certe cose, perché il “rincuorare” è nello spirito umano, e nello spirito di una società che si crede grande, ma in realtà vive sull’apparenza e sulla false promesse.

Una società che parla politichese e si vuole sentire parlare in politichese.

martedì, settembre 25, 2007

Ad Ahmadinejad rispondere con i fatti










Il presidente iraniano lo conosciamo tutti. Sappiamo come la pensa. Sappiamo come ragiona. E’ stato invitato a parlare alla Columbia University, e questo ha scatenato un putiferio.

Nel merito, il solo fatto che l’Hitler del 2007 proponga un referendum sullo stato di Israele fa tremare le ginocchia. Ma mi chiedo, è giusto chiamare un personaggio così scomodo e metterlo nella condizione in cui lui metterebbe un interlocutore, se ci trovassimo all’università di Teheran?

E’ giusto mettersi al suo livello, obbligandolo a risposte secche?

Ahmadinejad a casa sua farebbe così.

Non conoscendo cosa sia lo stato di diritto e il mercato delle regole, non sa cosa possa essere l’obiezione, la divergenza, il contrasto.

Il presidente iraniano a New Jork ha fatto la figura della vittima. Una vittima davanti all’imperialismo occidentale che pretende di avere sempre ragione.

A questo signore, a mio parere, bisogna rispondere con i fatti. Se lui pretende di essere l’assoluto e il braccio politico del Consiglio Supremo degli Ayatollah, allora ci spieghi le sue affermazioni.

Sul terreno della demagogia e dell’offesa vince lui. Vince chi la pensa come lui. Vince l’intolleranza.

Le proteste civili in piazza sono in sale della democrazia, ma ogni tanto sarebbe curioso chiedere ad Ahmadinejad il senso delle sue accuse, e delle sue affermazioni. La giustificazione delle fesserie che ci propina ogni giorno.

In questo modo, con la cultura, e i fatti, è possibile abbattere quel tessuto di dogmi e valori assoluti, di cui è intrisa la mente di un uomo tanto determinato, quanto senza scrupoli, come il presidente iraniano.


lunedì, settembre 24, 2007

Juve e Roma.Pari giusto. Brilla la Fiorentina

La Juve pareggia a Roma. Un pareggio arrivato per due motivi. In primo luogo la Roma ha presentato la stessa formazione di mercoledì, e quindi ci si poteva attendere comunque un calo fisico nella ripresa.

In seconda battuta la formazione d’emergenza ideata da Ranieri mette in difficoltà una squadra quadrata che gioca palla a terra come la Roma.

Mettere Iaquinta largo sulla destra vuol dire stoppare la fascia. Mancini non è uno che torna e rimanendo isolato, finisce nella tela del fuorigioco Juve, ieri finalmente attuata bene.

I tre centrocampisti mediani con un Nedved sacrificato danno la garanzia al centrocampo di non essere in inferiorità numerica davanti a un vero e proprio gioiello come quello romano. Tutto sommato le mosse di Ranieri hanno funzionato. Unico neo la difesa, dove Criscito forse ha capito che è indietro di 10 kg rispetto al peso forma, e Andrade perso fino a fine anno.

Tornerà sul mercato la dirigenza?

Una Juve buona quindi, ma prevedibile. I problemi rimangono. Non c’è nessuno in grado di fare gioco. Almiron e Tiago sono da rimandare ( per quanto?), e l’unico nelle idee del tecnico che funge da registra dovrebbe essere Camoranesi. Purtroppo l’asso italiano è infortunato. Ora c’è Iaquinta. Garantisce l’allungo della squadra, ma servirebbe qualcuno di qualità in mezzo al campo.

Con una squadra fisica come l’Inter o verticale come il Milan dubito che si possa pensare di proporre una squadra di emergenza. Servirà un’armonia tra i reparti e una qualità di gioco che al momento non c’è.

L’Inter fatica comunque. Non sembra la squadra trita tutto dell’anno scorso, ma a mio parere il problema è la preparazione. Mi pare che Moratti e Mancini abbiano puntato a fare una fine di stagione in crescendo, un po’ come il Milan l’anno scorso. Attendiamo quindi di vedere se in primavera l’Inter potrà puntare a una coppa che manca da quarant’anni.

Il Milan è il Milan. Lento in campionato e presente in coppa. Sembra quasi che sia nella sua storia e nella sua natura giocare di notte dopo il celebre inno preso dai Queen. Una squadra nata per soffrire che preferisce la lentezza e il clima del mercoledì, piuttosto che i campi spesso disastrati e il rude gioco di casa nostra.

La Fiorentina e l’Atalanta rappresentano assieme all’Udinese le realtà più interessanti di queste prime giornate. In particolare la Fiorentina dimostra, anche cambiando gli uomini, di avere un’organico all’altezza per mirare alla Champions. Non sarà facile, soprattutto quando la Juve recupererà quasi tutti gli effettivi, ma Prandelli sa che ha a disposizione una squadra che può mettere in difficoltà chiunque. Una squadra che al netto delle penalizzazioni ha fatto 3 punti in più della Roma negli ultimi due anni. Firenze attende qualcosa di grande.

Prandelli è l’uomo giusto per realizzare i sogni di un’intera regione.

Ieri lo United ha affondato il Chelsea. Buona prova del Manchester che ha spazzato via le voci di chi diceva che il dominio dell’anno scorso era irripetibile.

Chelsea che sembra sempre più vicino a Ronaldinho, vittima di voci e gossip da far rabbrividire quelli nostrani. Dopo le dimissioni di Mourinho, anche i suoi più grossi detrattori avvertono la mancanza di un personaggio scomodo, ma capace di creare un gruppo con una rosa piena di campioni, ma difficili da incastrare.

Incastro che sembra invece premiare le parole di Sir Alex Ferguson sull’Arsenal.

Effettivamente senza Henry la squadra sembra più libera e anche se con tanti giovani, sembra possa ripetere gli exploit di due anni fa. Fabregas e Adebayor sono i veri trascinatori di un gruppo che gioca a memoria e che ha nel suo allenatore il vero fuoriclasse.

Real Madrid impacciato, fatica e pareggia all’ultimo con una rete dell’ex bluagrana Saviola. Chissà se Schuster si affiderà di più a lui ora, visto l’opaco avvio di stagione di Higuain.

Barcellona che torna terzo grazie al gioiello Messi, probabilmente ora il più forte giocatore del mondo. Sua la doppietta che ha stesso il Siviglia, sempre più in crisi dopo le sconfitte internazionali con Arsenal e Milan in supercoppa.

Note positive per il calcio italiano sono i 4 gol di Toni in 5 partite in Germania e la doppietta di Giuseppe Rossi in Spagna dove entrato all’80’, ha disfatto le ambizioni del neo promosso Murcia.

Il Villarreal con Giuseppe Rossi, Nihat, e Tomasson può ambire sicuramente a un posto in Champions.

Pericolo Iraq per l'Afghanistan?










Siamo in Afghanistan da 6 anni e più passano i giorni e più crescono i dubbi e le ansie legate alla missione. I due militari italiani sono stati liberati, ma non si può non vedere come la situazione è decisamente più complessa di come si prospettava.

La tanto temuta discesa dalle montagne dei Taliban in primavera non c’è stata. Merito delle forze alleate o incapacità di organizzazione dei Taliban? Di certo è che nelle province di Herat e Kandahar sono continuati gli attacchi verso le forse americane e le forse Isaf, e a nulla è valso il tentativo di Karzai di raggiungere un accordo con le fazioni che appoggiano in modo dichiarato i Talebani.

L’Afghanistan è un territorio denso di incognite e la composizione del territorio non aiuta le forze alleate. Già nel 2001 l’Alleanza del Nord, le truppe meglio equipaggiate su cui potevano contare gli U.S.A, hanno registrato difficoltà nel fare piazza pulita nella regione del Waziristan, tra il Pakistan e l’Afghanistan, dove si presupponeva fosse la base operativa di Al-Qaeda.

Dopo 6 anni il problema iracheno torna alla luce anche qui.

L’obbiettivo militare è stato raggiunto, anche se voci dicono che Karzai governava fino al 2005 solo a Kabul, e ora neanche tutta la città è sotto la guida del nuovo governo. La politica lascia a desiderare.

I taliban, grazie al commercio dell’oppio ( 98% del mercato è afgano) hanno raggiunto un buon grado di indipendenza e l’etnica pashtun tacitamente non rinnega che sotto il regime non si viveva poi così male. Etnia che tra l’altro è determinante per la sorte in Pakistan, dove Musharraf è in bilico tra le pressione americane e l’estremismo islamico che dilaga.

Fiore all’occhiello della guerra al terrorismo, l’Afghanista sembra ora inviso da gran parte dell’opinione pubblica. I continui attentati non aiutano di certo né l’Amministrazione Bush, bisognosa di vittorie politiche per arrivare alla presidenziali con un buon credito, né l’Europa dove i governi hanno scommesso sull’Afghanistan per distanziarsi proprio da una guerra dichiarata come “unilaterale” come quella in Iraq.

Non si può andare via ora anche dall’Afghanistan ovviamente. Rimane il fatto che il tempo trascorso è complessivamente fino ad ora più lungo rispetto alla prima e la seconda guerra mondiale. Tentare di inglobare i Taliban al potere potrebbe essere una mossa realisticamente interessante.

Potrebbe essere un deterrente contro le aspirazioni di ribaltamento politico dell’ex regime, anche se è comunque rischioso dare una mano a chi la dava ( dà) a sua volta ai terroristi.

Se l’offensiva di primavera non ha dato i suoi frutti probabilmente la guerriglia non è poi così organizzata come si temeva e allora prima dell’inverno urgerebbe un blitz tra le montagne, data la differenze di uomini in campo tra Nato e U.S.A.

Si deve andare avanti allora, per portare pace a un popolo che tra 30 anni è massacrato e in guerra.

Il pericolo è evidente però.

Una guerra di logoramento anche qui però come in Iraq, rischia nel lungo periodo di rafforzare il terrorismo, galvanizzato da un Occidente debole e incapace di andare fino in fondo dove è chiamato a difendere la libertà.


giovedì, settembre 20, 2007

Emilia Romagna regione grassa!

Scandalo!

In Emilia – Romagna siamo tutti grassi!!!!!!!!

Dove sono le politiche anti fast food del Governo?

Mourinho se ne va!!!!!!!!!

La fine di un mito…..

Bye Bye Jose…

Politica Amica Nemica della RAI

Padoa Schioppa dice che secondo lui il male della RAI è nella politica.

Anche secondo me è così, però è chiaro che il Ministro, non può, anche se da tecnico, far finta di nulla.

La politica non ha mai fatto nulla per smuovere il carrozzone RAI, ma è la stessa politica che ha i mezzi per rimettere in sesto le cose.

E’ la politica che può far si che l’Isola dei Famosi e gli scontri Cecchi-Paone Ventura non siano in prima serata. Se la soluzione privatizzazione appare troppo drastica ci dica la classe dirigente cosa ha intenzione di fare.

Mi pare che la soluzione più condivisa una Fondazione con il coinvolgimento dei privati. Se giornali e parlamentari si occupassero meno di poltrone e poltroncine, farebbero una cosa buona al servizio del Paese.

Discutere di come ristrutturare radicalmente l’azienda e di come utilizzare al meglio il canone sono le cose che più interessano alla gente.

lunedì, settembre 17, 2007

Grillo "vorrei ma non posso" della sinistra

Grillo è un prodotto della politica. Si sa. E’il tentativo di colmare questo vuoto nazional-popolare dovuto alla mancanza di idee di una classe dirigente che negli anni non si è mai saputa rinnovare.

La nomina clientelare al posto del metodo meritocratico, le tante parole e i pochi fatti, le promesse mai mantenute, sono tutti sintomi di un malessere diffuso da più parti tra l’elettorato.

Grillo è tutto fuorché stupido, l’ha capito. Ha capito che il popolo è stufo.

Buttandola sul personale e denunciando più che proporre, il comico genovese tiene alto il livello dello scontro prendendosela con la Casta.

Quando c’era il Cav al Governo il problema era lui. Le manifestazione e le ore di sciopero erano continue. C’era una maggioranza silenziosa che attendeva risultati e riforme, e una parte del Paese che inveiva contro il premier, ladro e usurpatore di poteri.

Ora la maggioranza è cambiata. Le promesse sono state tante e i fatti per ora quasi nulli. La parte del Paese che aggrediva lo psico-nano sa che non è colpa sua ora. Sa che il problema quindi in Italia quindi non poteva essere il Cav in seè e per sé.

Da questa voglia di rivincita verso la politica, a metà tra la denuncia vera e propria a Prodi, e la protesta in generale verso la politica, spunta Grillo, predicatore di altri tempi.

Lui, non sarebbe mai esistito nei cinque anni berlusconiani. Non poteva. Perché per tanti aspetti il Grillo era l’opposizione, che denunciava ma non proponeva, e manifestava con un soffio di demagogia che, dobbiamo darne atto, il centrodestra non sta attuando per ora.

Grillo quindi prodotto della politica, ma confezionato ad arte da una parte della politica che vede in lui sotto sotto un esaltatore di piazze come per anni sono stati loro.

Un “vorrei ma non posso” perché il rischio è il populismo.

Un “vorrei ma non posso” tipico delle classi progressiste del Paese, dove la parola d’ordine è il “ si ma però..”e alla fine non si fa nulla!